Tecnologia e medicina. Industria e sanità. Legami complessi e delicati. Che, in Italia, a causa dei vincoli finanziari a cui è sottoposto l'intero Sistema Paese, si trovano ora a un bivio. Inseguire l'innovazione e curare meno persone? O adoperare strumenti più consolidati e maturi che già garantiscono buoni risultati con molti pazienti, ma rischiando così di perdere il treno dell'innovazione?
«Oggi - dice Luigi Martinelli, direttore di Cardiochirurgia all'ospedale Niguarda di Milano - esiste un tema insieme scientifico e deontologico, gestionale e etico: la compatibilità dell'universalità del nostro sistema sanitario con le nuove tecnologie. La sfida è che esse siano efficaci e appropriate. Ma anche sostenibili».
La quotidianità, negli ospedali, è complicata. Le risorse tendono a ridursi e non sempre vengono utilizzate al meglio in termini di efficienza. La cardiochirurgia è uno dei terreni più avanzati in cui sperimentare il paradosso della tecnologia migliore che potrebbe non costituire, in assoluto, la decisione migliore. Allo stesso tempo, compiere scelte sistematicamente non rischiose potrebbe portare il sistema sanitario italiano lontano dalla frontiera tecnologica. Decisioni complicate che vengono affrontate nella Cardiochirurgia del Niguarda, dove ogni anno si susseguono novecento casi su quattromila ricoveri di pazienti cardiopatici. Novecento casi trattati da sedici degli ottanta medici impegnati nel Dipartimento Cardiotoracovascolare del Niguarda, che viene affiancato nelle sue attività di ricerca e di cura dalla Fondazione Centro Cardiologia e Cardiochirurgia Angelo De Gasperis.
«Ci sono alcuni esempi che mostrano davvero la contraddizione potenziale - aggiunge Martinelli - in cui rischiamo di incorrere non soltanto noi come reparto di eccellenza del Niguarda, ma tutta la sanità italiana». La cardiochirurgia, con la sua miscela di innovazione radicale e di innovazione incrementale, ha una sua forza emblematica. Un primo esempio è costituito dal cuore artificiale. Quello che viene tecnicamente definito Vad (Ventricular assist device). In Italia il Vad significa la differenza fra vivere e morire, dato che i donatori di cuore sono sempre meno: nel 2013 sono stati eseguiti 219 trapianti (il 40% in meno rispetto a cinque anni prima) e sessanta italiani in lista per il trapianto sono morti per la mancanza di cuori idonei. Il modello oggi più adoperato costa 85mila euro. Dopo due anni è vivo l'80-90% dei pazienti, contro il 25% di quelli che fanno la sola terapia medica. La nuova generazione viene offerta a 100mila euro e comporta una qualità della vita più elevata. «Il cavo che esce dal corpo è molto più sottile - spiega Martinelli - e le batterie pesano quasi la metà. La qualità della vita del paziente è molto migliore». Costa quindicimila euro in più. Il rischio è che - a parità di budget - se ne possano curare di meno. Non tanti in meno, ma qualcuno in meno sì.
Leggi tutto l'articolo di Paolo Bricco - Il Sole 24 Ore