Infarto: le innovazioni degli ultimi 30 anni
Negli anni '60, agli inizi della mia professione, l'infarto miocardico era una malattia molto grave: i pazienti restavano degenti, immobili, per circa un mese in reparti di Medicina; un terzo di essi moriva, spesso durante il sonno senza alcun preavviso; chi era dimesso aveva di frequente un destino di invalido per il resto della vita.
Verso la metà degli anni '60 nei paesi anglosassoni comparvero le prime Unità di Cura Coronarica Intensiva (UCC).
Data l'elevata mortalità, dovuta in gran parte ad aritmie improvvise, si ritenne che concentrare questi pazienti in un'area che garantisse una continua assistenza specializzata sia medica che infermieristica, in grado di fruire dei mezzi di cura più aggiornati, avrebbe migliorato il trattamento dell'infarto.
Un passo decisivo fu la possibilità di seguire costantemente su uno schermo lo svolgersi dell'elettrocardiogramma dei pazienti (monitorizzazione), in modo da intervenire con rapidità alle prime irregolarità del ritmo cardiaco e scongiurare l'arresto del cuore.
Nel 1967 nascevano contemporaneamente, prime in Italia, l'UCC del Centro De Gasperis, diretta dal Prof. Rovelli, e l'UCC del San Camillo di Roma, diretta dal Prof. Puddu.
Le UCC ottennero in qualche anno un dimezzamento della mortalità eliminando quasi del tutto i decessi per aritmia.Nel contempo si comprese che il paziente infartuato poteva, con prudenza, essere mobilizzato dal letto dopo la prima settimana e, verso la 3a-4a, avviato ad un programma di riabilitazione cardiologica sotto diretto controllo medico, in grado di seguire il comportamento del cuore durante l'attività fisica e di cogliere precocemente eventuali anomalie.Questo conferì al paziente maggior sicurezza e tranquillità per l'avvenire e lo rese consapevole di poter riprendere le proprie abitudini di vita nel 70-80% dei casi.
Si dovevano risolvere ancora due difficili problemi:
abbattere la mortalità ospedaliera, attestata intorno al 15%;
ridurre l'invalidità relativa o assoluta nei pazienti che sopravvivevano (20-25%).
Il problema era incentrato sull'estensione della parte del cuore colpita dall'infarto: più questa era ampia, maggiore era la probabilità di morire o di contrarre una stabile invalidità. Come ridurre l'area dell'infarto?
Alla fine degli anni '70 le conoscenze mediche acquisirono due nuovi concetti.L'infarto era generalmente dovuto alla formazione di un coagulo (trombo) occludente un importante ramo coronarico: l'arresto del flusso di sangue portava alla morte delle cellule cardiache interessate. Questa "morte" partiva da un nucleo centrale e si espandeva a macchia d'olio raggiungendo le dimensioni definitive entro 4-6 ore.
Era quindi essenziale riaprire rapidamente la coronaria chiusa ristabilendo il flusso di sangue alle cellule ancora vitali ma sofferenti.
Si pensò di fare ricorso a sostanze capaci di sciogliere i coaguli delle coronarie, i "trombolitici".A metà degli anni '80 si raggiunse la certezza che impiegando i trombolitici nelle prime ore dell'infarto era possibile ottenere infarti più piccoli e quindi minor mortalità e morbilità.
E' un vanto della Cardiologia Italiana, e in primo luogo un merito del Prof. Rovelli che ne fu l'ideatore e l'animatore, aver portato a compimento lo studio GISSI, primo studio di popolazione sull'infarto (12 mila pazienti reclutati in tutta Italia) che impose all'attenzione del mondo scientifico la validità della terapia trombolitica.
Avendo avuto personalmente il privilegio di presentare in molte città europee i dati del GISSI, ricordo lo stupore e l'incredulità degli stranieri per il fatto che la medicina italiana, che allora godeva di credito limitato in campo scientifico, avesse realizzato una così formidabile impresa organizzativa.
Negli anni successivi molto si è fatto per ottenere la riapertura rapida, completa e duratura della coronaria occlusa causa dell'infarto, sia con la sintesi di farmaci trombolitici più potenti, sia seguendo l'indirizzo di una riapertura meccanica del vaso con angioplastica, stent, by pass aorto coronarico d'emergenza, procedure che richiedono la disponibilità immediata di laboratori e sale operatorie rapidamente attivabili 24 ore su 24.
Allo stato attuale queste terapie sono attuate solo in pochi Centri particolarmente attrezzati, tra i quali il Centro De Gasperis.
Tanto la trombolisi, quanto altre metodiche di riapertura del vaso, hanno più successo se si interviene con tempestività: dopo 6 ore dall'inizio dei sintomi esse perdono gran parte del loro valore. Il tempo di ricovero è il punto critico. Una nostra ricerca ha dimostrato che la ragione del maggior ritardo sta nel tempo che il paziente impiega per decidere di far intervenire il medico, l'ambulanza o recarsi all'ospedale più vicino.
Le Associazioni cardiologiche si sono poste come compito prioritario il diffondere la conoscenza dei segni premonitori dell'infarto e di come agire in caso di sospetto infarto. Esiste un utilissimo servizio Telefonico, il 118, che da la possibilità di consultare un medico per sapere come comportarsi.
In ultima analisi, l'infarto oggi rimane pur sempre una malattia seria, dalla quale però si può guarire con pieno recupero della propria integrità fisica, a patto di adottare, da persone responsabili, un miglior stile di vita.
Verso la metà degli anni '60 nei paesi anglosassoni comparvero le prime Unità di Cura Coronarica Intensiva (UCC).
Data l'elevata mortalità, dovuta in gran parte ad aritmie improvvise, si ritenne che concentrare questi pazienti in un'area che garantisse una continua assistenza specializzata sia medica che infermieristica, in grado di fruire dei mezzi di cura più aggiornati, avrebbe migliorato il trattamento dell'infarto.
Un passo decisivo fu la possibilità di seguire costantemente su uno schermo lo svolgersi dell'elettrocardiogramma dei pazienti (monitorizzazione), in modo da intervenire con rapidità alle prime irregolarità del ritmo cardiaco e scongiurare l'arresto del cuore.
Nel 1967 nascevano contemporaneamente, prime in Italia, l'UCC del Centro De Gasperis, diretta dal Prof. Rovelli, e l'UCC del San Camillo di Roma, diretta dal Prof. Puddu.
Le UCC ottennero in qualche anno un dimezzamento della mortalità eliminando quasi del tutto i decessi per aritmia.Nel contempo si comprese che il paziente infartuato poteva, con prudenza, essere mobilizzato dal letto dopo la prima settimana e, verso la 3a-4a, avviato ad un programma di riabilitazione cardiologica sotto diretto controllo medico, in grado di seguire il comportamento del cuore durante l'attività fisica e di cogliere precocemente eventuali anomalie.Questo conferì al paziente maggior sicurezza e tranquillità per l'avvenire e lo rese consapevole di poter riprendere le proprie abitudini di vita nel 70-80% dei casi.
Si dovevano risolvere ancora due difficili problemi:
abbattere la mortalità ospedaliera, attestata intorno al 15%;
ridurre l'invalidità relativa o assoluta nei pazienti che sopravvivevano (20-25%).
Il problema era incentrato sull'estensione della parte del cuore colpita dall'infarto: più questa era ampia, maggiore era la probabilità di morire o di contrarre una stabile invalidità. Come ridurre l'area dell'infarto?
Alla fine degli anni '70 le conoscenze mediche acquisirono due nuovi concetti.L'infarto era generalmente dovuto alla formazione di un coagulo (trombo) occludente un importante ramo coronarico: l'arresto del flusso di sangue portava alla morte delle cellule cardiache interessate. Questa "morte" partiva da un nucleo centrale e si espandeva a macchia d'olio raggiungendo le dimensioni definitive entro 4-6 ore.
Era quindi essenziale riaprire rapidamente la coronaria chiusa ristabilendo il flusso di sangue alle cellule ancora vitali ma sofferenti.
Si pensò di fare ricorso a sostanze capaci di sciogliere i coaguli delle coronarie, i "trombolitici".A metà degli anni '80 si raggiunse la certezza che impiegando i trombolitici nelle prime ore dell'infarto era possibile ottenere infarti più piccoli e quindi minor mortalità e morbilità.
E' un vanto della Cardiologia Italiana, e in primo luogo un merito del Prof. Rovelli che ne fu l'ideatore e l'animatore, aver portato a compimento lo studio GISSI, primo studio di popolazione sull'infarto (12 mila pazienti reclutati in tutta Italia) che impose all'attenzione del mondo scientifico la validità della terapia trombolitica.
Avendo avuto personalmente il privilegio di presentare in molte città europee i dati del GISSI, ricordo lo stupore e l'incredulità degli stranieri per il fatto che la medicina italiana, che allora godeva di credito limitato in campo scientifico, avesse realizzato una così formidabile impresa organizzativa.
Negli anni successivi molto si è fatto per ottenere la riapertura rapida, completa e duratura della coronaria occlusa causa dell'infarto, sia con la sintesi di farmaci trombolitici più potenti, sia seguendo l'indirizzo di una riapertura meccanica del vaso con angioplastica, stent, by pass aorto coronarico d'emergenza, procedure che richiedono la disponibilità immediata di laboratori e sale operatorie rapidamente attivabili 24 ore su 24.
Allo stato attuale queste terapie sono attuate solo in pochi Centri particolarmente attrezzati, tra i quali il Centro De Gasperis.
Tanto la trombolisi, quanto altre metodiche di riapertura del vaso, hanno più successo se si interviene con tempestività: dopo 6 ore dall'inizio dei sintomi esse perdono gran parte del loro valore. Il tempo di ricovero è il punto critico. Una nostra ricerca ha dimostrato che la ragione del maggior ritardo sta nel tempo che il paziente impiega per decidere di far intervenire il medico, l'ambulanza o recarsi all'ospedale più vicino.
Le Associazioni cardiologiche si sono poste come compito prioritario il diffondere la conoscenza dei segni premonitori dell'infarto e di come agire in caso di sospetto infarto. Esiste un utilissimo servizio Telefonico, il 118, che da la possibilità di consultare un medico per sapere come comportarsi.
In ultima analisi, l'infarto oggi rimane pur sempre una malattia seria, dalla quale però si può guarire con pieno recupero della propria integrità fisica, a patto di adottare, da persone responsabili, un miglior stile di vita.
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